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[1285] del vespro siciliano. 307

Niccolò e Francesco, messinesi, Bonamico de Randi milite, Giovanni Celamida da Traina, e più altri di Randazzo; indettatisi con giuramento a tradire, non so qual credeano, la patria o il re. E sì l’autorità del papa accecava le menti, che i due frati, passati a Messina, avean ricetto nel chiostro delle suore di santa Maria delle Scale; dal qual sicuro nido misteriosi usciano ad annodare lor fili. Ma la cospirazione allargandosi trapelò. Un Matteo da Termini, messovi sulle tracce dall’infante Giacomo, appostò alfine i due frati predicatori, aiutato da due frati minori, Simone da Ragusa e Raimondo, catalano; i quali il fecer cogliere a casa una femminuccia mendica. Addotti allo infante, senza pur minaccia, svelavan per ordine il trattato; e rimandati erano a Napoli con vestimenta, danaro, e barca apposta; per clemenza non già, ma contemplazione e paura del papa. L’abate fuggì: preso a Palermo, il mandavan prigione a Malta; indi a Messina; e infine libero a corte di Roma. I men rei, al contrario, gastigati severamente: dicollati a Messina i nipoti dell’abate; Celamida alle forche; Bonamico, gittatosi nei boschi dell’Etna a levar mano di disperati, fu accarezzato e svolto a parte regia dalle arti di Matteo da Termini1. Così la congiura si dissipò in Sicilia; mentre in Aragona terminava, senz’altro frutto che d’atti crudeli e mortalità infinita, la guerra che, tornando alquanto indietro nei tempi, ci faremo a narrare.

  1. Bart. de Neocastro, cap. 98.