Pagina:La morte e l'immortalità - Feuerbach, 1866.djvu/28

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nevano poi la morte per il male il più grande, ed io penso che anche noi moderni verremo man mano accostandoci a questa sentenza.

L’antico Romano (il repubblicano segnatamente) non vivea che per la sua patria, nè il suo orizzonte intellettuale si clargava al di là del terrestre. Scopo suo principale era la grandezza di Roma, e quanto a se medesimo personalmente non si attendea in un’altro mondo una condizione d’esistenza superiore a quella dei suoi compatriotti; ma aspirava solo a lasciar gloriosa memoria di se dopo la sua morte. Spirito ed anima del Romano antico era il suo Romanismo e siccome consistea questo nella totalità dei suoi cittadini di tutte le epoche, così egli non avrebbe potuto comprendere il come e perchè personalmente avesse potuto disgregarsi da quella comunione alla quale esso andava superbo di appartenere. La Virtù stessa egli non la conosceva che alla Romana, poiché il suo intendimento mirava meglio a far di se stesso un Romano perfetto, che un uomo tipico, cosmopolita.

E ad un siffatto ideale egli perveniva come un fiore realizza il suo tipo speciale e già contenuto nel suo germe primitivo.

Insomma per l’antico Romano non esisteva quello enorme sbalzo che per noi stassi tra lo ideale e la realtà delle cose.

Ora appunto un risultato, di questo sbalzo di questo abbisso, di questo Scisma, è la credenza alla immortalità; quindi il Romano antico non poteva seguitarla.

Dicasi lo stesso dei Greci o Elleni, i quali coltivavano con ardore l’Amor del Bello basato così come