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attimo il dolore della morte.1 Questo dolore accomuna tutte le cose che vivono e non hanno in sé la vita, che vivono senza persuasione, che come vivono temono la morte. E stillante in ogni attimo della vita nessuno lo conosce, ma lo dice gioia; assorbente nei terrori della notte e della solitudine ognuno lo prova, ma nessuno lo confessa, che alla luce del giorno si dice contento e sufficiente e soddisfatto di sé. Ma esso è nell’opinione e nella bocca di tutti quando è fatto manifesto nei fatti singoli, dove l’impotenza apparendo causata da una cosa determinata, è giudicata anch’essa definita e limitata a quel riguardo; e si dice allora rimorso, malinconia e noia, ira, dolore, paura, gioia troppo forte.
Il rimorso per un determinato fatto commesso, che non è pentimento finito per quel fatto, ma il terrore per la propria vita distrutta nell’irrevocabile passato, per cui uno si sente vivo ancora e impotente di fronte al futuro, è il cruccio infinito che rode il cuore.
La malinconia e la noia che gli uomini localizzano nelle cose come se ci fossero cose melanconiche o noiose, e sono lo stesso terrore dell’infinito quando la trama dell’illusione in qualunque modo per quelle cose è interrotta;
- ↑ Elettra all’annuncio della morte d’Oreste che le aveva tolta la ragione di vivere sulla quale confisa essa aveva fino allora guardato al futuro, non dice rettoricamente «mi sento morire», o «muoio», ma: ὄλωλα τῆδ’ἐν ἡμέρᾳ — e poi piú forte: ἀπωλόμην δύστηνος, οὐδέν εἰμ’ἔτι (Sofocle., El., 674, 676).