Pagina:Laerzio - Vite dei filosofi, 1845, II.djvu/44

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32 capo ii

do l’occhio della vergine, tu non guastassi mai la pupilla ([testo greco]). — Dicendogli un tale che gli amici gli tendevano insidie, E che cosa, disse, s’ha egli a fare, se a un modo istesso e’ converrà servirsi degli amici e dei nemici? — Interrogato che vi fosse di più bello tra gli uomini? rispose: La franchezza nel dire. — Entrando in una scuola e vedendovi di molte Muse, ma scolari pochi, disse: Maestro, compresi i numi, tu hai scolari in buon dato. — Avea per costume di fare tutto in pubblico e le cose di Cerere e le cose di Venere; e questi ragionamenti faceva con alcune domande: Se il desinare non fosse cosa sconveniente, nè in piazza sarebbe sconveniente; ma il desinare non è cosa sconveniente, dunque non è sconveniente in piazza. — Facendo di frequente in faccia a tutti un atto sconcio, Oh perchè, diceva, non si può anche fregando il ventre, far cessare la fame? — Altre cose ancora si attribuiscono a lui, che lungo sarebbe raccontare, essendo molte. — Diceva che doppio era il modo dell’esercitarsi: uno spirituale, l’altro corporeo; secondo il quale le immagini che del continuo si creano coll’esercizio, forniscono, all’opere della virtù, la scioltezza; ma essere l’uno senza dell’altro imperfetto; creandosi la buona disposizione e robustezza non meno nell'anima che nel corpo. Ed aggiugneva a prova dell’arrivare facilmente alla virtù coll’esercizio, l’aver egli veduto ne’ mestieri meccanici, e d’altra maniera, gli operai essersi fatta collo studio una prestezza di mano non comune; e i suonatori di flauto e i lottatori, soltanto colla propria fatica vincersi gli uni gli altri fra loro; e che se questi trasportassero