Pagina:Le Novelle Indiane Di Visnusarma, UTET, 1896.djvu/78

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70 novelle indiane di visnusarma

tu mi sei veramente amico, pensa tu alcun modo per dar morte a quello scellerato, perchè almeno, fatto ciò, possa cancellarsi questo mio dolore della perdita della prole. Perchè è stato detto:


Penso che un uomo sia
Veracemente tale
Che il cambio a ciascun dia,
A questo e a quello eguale,


A chi nella sventura
Di lui si prese cura
E a chi di lui ridea
Nella fortuna rea. —


Il picchio disse: Tu hai detto il vero, perchè è stato detto:


Amico è quei che in tempo di sventura
Serbasi tal, ben che di estrania gente.

Ciascun, quando propizia è la ventura,
Dicesi amico a ogni mortal vivente.


E poi:


Amico è quei che è tal nella sventura;
Figlio è quel sì che de’ parenti ha cura;

Servo è quei che conosce il suo dovere;
Sposo è colui che appaga la mogliere.


Vedi tu intanto la potenza dell’ingegno mio! Io ho per amica una mosca che si chiama Vinarava. Chiamando costei con me, andrò e farò in modo che quel malvagio e scellerato di elefante resti ucciso. — Egli adunque, recatosi dalla mosca insieme alla passera, disse: Amica, questa passera amica mia è stata offesa da un malvagio di elefante col farle rompere le ova. Intanto, tu devi darmi aiuto mentre io cerco il modo di ammazzarlo. — La mosca disse: Caro mio, e che si dice mai a questo proposito? perchè è stato detto:


Per averne il contraccambio,
Agli amici alcun favore
Si suol fare.


All’amico dell’amico
Che potrassi dall’amico
Mai negare?


Questo è pur vero. Ma io ho per mia grande amica una rana di nome Meganada. Come avrem chiamata anche lei, faremo ciò che s’ha da fare. Perchè è stato detto:


Mai non falliscono
Gli espedienti
Che già pensarono
I sapïenti


Che san le regole,
Di mente dotta,
Che irreprensibile
Han la condotta. —


Così questi tre, andando presso di Meganada, le raccontarono tutto quanto l’accaduto, e quella disse: Oh! che può mai un miserabile elefante contro una gran schiera di gente indignata? Seguasi intanto questo mio consiglio! Tu, mosca, nell’ora del mezzogiorno entrando in un orecchio all’elefante infuriato, farai come un suono di liuto, per il quale egli starà con gli occhi chiusi per desiderio d’ascoltar quel dolce suono. Allora egli, come gli saran stati cavati gli occhi dal becco del picchio, fatto cieco e tormentato dalla sete, quando udrà la voce mia e delle mie compagne che sarem sull’orlo d’un burrone senza fondo, pensandosi che là sia uno stagno d’acqua, ci verrà dietro. Accostandosi al burrone, vi cadrà e morrà. Così deve farsi in società perchè il nemico resti disfatto. — Essendo