Pagina:Le aquile della steppa.djvu/166

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160 Capitolo primo.

d’ordine delle sentinelle, attraversarono l’accampamento ed entrarono sotto una vasta tenda sulla cui cima ardeva un grosso fanale, accanto ad una bandiera rossa, attraversata da una grande croce bianca.

Nell’interno vi era una ventina di materassi, sui quali giacevano degli uomini che avevano la testa fasciata di bende più o meno insanguinate: russi feriti dai kangiarri, dagli jatagan e dalle scimitarre dei Shagrissiabs, nell’attacco dei giardini di Kitab.

Nel mezzo, sotto una lanterna, un capitano medico, molto barbuto, con un grosso sigaro in bocca, stava seduto su un tamburo, leggendo qualche vecchio giornale.

Vedendo entrare il sergente alzò il capo, senza smettere di fumare.

— Che cosa mi porti, Alikoff? — chiese. — Non è ancora finita la raccolta dunque?

— No, capitano, però quello che vi conduco non è uno dei nostri. —

Il capitano aggrottò la fronte e fece un gesto come di stizza.

— Un ribelle?

— Sì, capitano.

— Portatelo a Djura bey od al suo socio, Baba beg.

— Non potrebbe giungere vivo fino a loro. È un pezzo grosso che vi reco capitano, il figlio d’un beg, sembra.

— Bah!.... Vediamo! —

Gettò via il sigaro e s’accostò ai quattro soldati che reggevano la coperta su cui si trovava Hossein.

— Per S. Piero e S. Paolo! — esclamò. — Che bel giovane! Dove l’hai pescato, Alikoff?

— In mezzo ad un cumulo di cadaveri.

— Non è morto?

— Non ancora, capitano.

— Dov’è ferito?

— Al dorso.

— Ferita non gloriosa se vogliamo. Fallo deporre su quel letto vuoto e fammi portare i ferri.

— Ve n’è un altro, capitano, — disse il sergente, indicando Tabriz, che in quel momento entrava.

Il medico squadrò il gigante con un certo stupore, poi disse, un po’ sorridendo: