Pagina:Le aquile della steppa.djvu/172

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166 Capitolo secondo.

ancora però sdraiato, il gigante, che credette dapprima di essere ancora in preda al delirio.

Tabriz, vedendo che lo guardava cogli occhi sbarrati, senza parlare, aveva indovinato subito ciò che passava attraverso il cervello di Hossein.

— Non t’inganni, mio signore, sono proprio io, il tuo fedele servo — disse il gigante. — Come stai? Meglio di ieri di certo, a quanto mi sembra.

Possiamo dire di essere scampati alla morte per un pelo di cammello.

— Tabriz!.... Tu! — esclamò Hossein.

— Parla sottovoce, mio signore od il capitano medico ti proibirà di aprire la bocca.

Sei ancora troppo debole.

— Che cosa è successo? Che cosa fai tu, li? Dove siamo noi? V’è nel mio cervello una confusione inestricabile.

— Sono accadute certe cose, mio signore, che è meglio che tu le ignori per ora, — rispose Tabriz con voce sorda. — Tu vuoi sapere dove siamo? In un ospedale da campo dei moscoviti, sotto le mura di Kitab.

— E allora?....

— Taci, mio signore, non nominarla. Tu non devi pensare alla fanciulla per ora; ti basti sapere che oramai conosco la persona che assoldò le Aquile della steppa.

Le nostre due ferite mi hanno aperto gli occhi.

— Che cosa vuoi dire Tabriz?

— Che noi non siamo caduti sotto il piombo dei moscoviti.

Un miserabile ci ha colpiti a tradimento alle spalle e quel miserabile era un turchestano al pari di noi.

— Chi? Tu conosci il suo nome?

— Sì, padrone, ma non te lo dirò fino a che non sarai perfettamente guarito. —

Poi abbassando la voce, in modo da non poter essere udito dai feriti che occupavano gli altri letti e che erano tutti russi gli chiese:

— Padrone, avevi dei documenti tu, nella tua fascia?

— Io!.... Nessuno, Tabriz. —

Il gigante si era fatto smorto.