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14 | Capitolo secondo. |
— Tabriz! —
Un uomo subito entrò, facendo un leggero inchino. Era un turcomanno d’aspetto brigantesco, di statura erculea, con una gran barba rossiccia ed ispida e due occhi grifagni.
Indossava il costume delle basse classi: cappello villoso che aveva la forma d’una pina, zimarra di feltro grossolano, con una larga cintura di pelle, entro cui erano passati due kangiarri dalle lame ricurve e alti stivali di pelle nera, terminanti in una punta molto rialzata.
— Che cosa vuoi, beg? — chiese il gigante.
— Hai udito?
— Sì, beg[1].
— Che sia stato Hossein a far fuoco?
— È il suo archibugio che ha sparato, padrone, — rispose Tabriz. — Distinguerei quel colpo fra mille.
— Su chi avrà fatto fuoco? — chiese il vecchio con ansietà.
— Non inquietarti, beg; tuo nipote è l’uomo più coraggioso che esista in tutta la steppa ed io dormirei tranquillo, anche se lo sapessi insidiato da venti uomini.
— Prima di partire egli mi ha parlato delle Aquile della steppa e tu sai, che quando sbucano dai deserti dell’Aral, non sono mai in poche. —
Il gigante alzò le spalle.
— Hossein, se ne ride di costoro. E poi chi non conosce nella steppa Giah Agha? Chi oserebbe assalire i suoi nipoti? Sanno bene quei banditi che quantunque tu sia vecchio, hai ancora la mano lesta e che la tua tribù conta guerrieri valorosi.
Forse che l’anno scorso non hai fatto acciecare dieci barbe bianche[2], che avevano guidato una partita di Aquile contro una tua carovana? La lezione sarà bastata, padrone.
— Ascolta, Tabriz.
— Non odo altro che il vento a sussurrare fra le erbe, — rispose il turcomanno.
— Ha con sè i cani, Hossein?
— Sì, beg.
— Non li odi ad abbaiare?