Pagina:Le aquile della steppa.djvu/202

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196 Capitolo quinto.

— Significherebbe che qui vi è dell’acqua.

— È vero.

— Andiamo a vedere. Siamo in due e non abbiamo paura, noi.

— Specialmente quando abbiamo dei kangiarri, — aggiunse il gigante.

Non sapendo con quale animale avevano da fare, s’avanzarono tenendosi dietro i tronchi degli alberi, onde avere, in caso d’improvviso attacco, almeno un riparo e, giunti dinanzi al gruppo d’astragalli, sostarono mettendosi in ascolto.

— Dell’acqua! — esclamò ad un tratto Tabriz, mentre il suo viso diventava raggiante. — La odo a gorgogliare.

— Dov’è?

— Lì in mezzo. Non odi, mio signore?

— Sì, mi pare.

— Siamo salvi!.... Accorriamo!....

— E la belva?

— Fosse anche una tigre non mi farebbe paura, — disse il gigante snudando il kangiarro.

Si era gettato dentro alla macchia, ma non aveva fatti cinque passi che incespicò in qualche cosa di molle, mentre sotto di sè udiva un miagolìo e si sentiva nel medesimo tempo, graffiare gli stivali.

— Fermo, Hossein! — gridò.

Uno scroscio di risa gli rispose; poi la voce del giovane si fece udire:

— Tu schiacci dei gatti, Tabriz. Ricordati che Maometto ha proibito di ucciderli. —


CAPITOLO V.


L’oasi.


Il gigante che era caduto lungo disteso, un po’ piccato da quello scoppio di risa e da quelle parole ironiche, si era prontamente alzato bestemmiando e ben deciso di fare a pezzi gli animali prediletti del Profeta, quantunque non credesse affatto che fossero tali.

— To’!.... To’! — esclamò ad un tratto, levando in aria il suo kangiarro. — Ah!.... Tu, mio signore, li chiami gatti, questi?