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L’attacco dei leoni. 227

parsa del sole, per espugnare la posizione, forse colla magra speranza di sorprendere i difensori addormentati.

— Io comincio a credere — disse Tabriz, — che quei signori abbiano lo stomaco meno vuoto di quello che abbiamo supposto finora e che ieri sera abbiano inghiottita una cena più abbondante della nostra.

— Perderemo un tempo troppo prezioso, — disse Hossein, che pensava in quel momento a Talmà.

— Dopo l’Amur-Darja noi troveremo quanti cavalli vorremo, signore, ed in un paio di giorni giungeremo dal beg.

— E la troverò colà? — chiese Hossein con angoscia.

— Zitto, signore, questo non è il momento nè il luogo opportuno per parlare di ciò.

Ah!... I leoni si permettono il lusso di schiacciare un sonnolino!... Se vi potessi sorprendere vi accarezzerei per bene i gropponi col mio kangiarro. —

Infatti le due belve, vedendo che i tre uomini non si decidevano a scendere, avevano posata la testa fra le zampe anteriori, socchiudendo gli occhi. Non vi era però da fidarsi di quel sonno più apparente forse che reale. Le orecchie erano tese ben diritte, per raccogliere i più lievi rumori, ed i tre turchestani non ignoravano l’acutezza dell’udito di quei terribili animali.

Nondimeno Tabriz, che cominciava ad averne abbastanza di quell’assedio che dovevano sostenere sotto un sole cocentissimo, a ventre vuoto e per di più fra il polverone che l’ultima galoppata degli asini selvaggi aveva sollevato e che non si era ancora disperso, credendo che i leoni assopiti dal calore si fossero veramente addormentati, si decise a tentare la discesa.

— Accada quello che si vuole, vado ad attaccarli, — disse a Hossein.

— Allora t’accompagno anch’io, — rispose il giovane.

— Voi state per commettere una pazzia, — signori, — disse Karaval. —

Il birbante non diceva quelle parole per salvare le loro vite, bensì per la paura che venissero sbranati e di dover poi sostenere l’assedio da solo.

— Se tu hai paura rimani, — rispose Tabriz.

— Io non sono un soldato come voi. Non sono che un povero loutis.