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La sconfitta degli usbeki. 255

— Agli altri due padrone, — disse Tabriz. — Non lasciamo a loro il tempo nè di rimettersi dallo spavento, nè di radunarsi.

— Non aver fretta: non sprechiamo colpi.

— Vi è il magazzino che ci provvederà, signore.

— La barca affonda!...

— Ma troppo tardi, signore.

Ecco che quei birbanti sono già a cavallo e si dirigono verso la riva.

Ecco là il guado!... Ne approfitteremo. —

Karaval e Dinar, vedendo la barca affondare, si erano gettati risolutamente in acqua costringendo i cavalli ad imitarli.

Trovandosi in quel momento a poche diecine di passi dalla riva ed in un luogo ove l’acqua era bassa, avevano attraversata rapimente la distanza, mettendosi in salvo sotto gli alberi.

— Ah! Signore! — esclamò, vedendoli scomparire. — Perchè non mi hai permesso di ammazzarli.

Hossein non ebbe il tempo di rispondergli. Urla feroci erano scoppiate alla base della collinetta, accompagnate da parecchi colpi di fucile.

I bukari avevano compreso con chi avevano da fare, e chi erano gli uomini che li cannoneggiavano, e forti del numero si preparavano alla riscossa.

— Padrone, — disse Tabriz, la cui fronte si era annuvolata, — scarica gli altri due pezzi, mentre io vado a far provvista di munizioni.

— Porta anche dei fucili e conduci due cavalli dietro la porta, — rispose Hossein. — Teniamoci pronti a fuggire. —

Mentre Tabriz s’allontanava correndo, il coraggioso giovane sporse il capo fra due merli per meglio osservare dove si trovavano i nemici.

Tenendosi nascosti dietro le rocce, erano già giunti alla base del sentiero e si spingevano animosamente innanzi, incoraggiati dai sagrati tuonanti del loro capo.

— Li prenderò d’infilata, — mormorò Hossein. — Si presentano in linea profonda e due palle faranno un bel vuoto se ben dirette. —

Senza occuparsi dei colpi d’archibugio, che non potevano offenderlo, essendo riparato dalle grosse merlature del ridotto, mise in