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128 le confessioni d’un ottuagenario.


— Ah sì sì! sette e cinque dodici e mezzo, rispose il capitano scomponendosi il ciuffo. — Giusto manca un mezzo bezzo a fare i sei soldi. Te li pagherò domani.

— Si figuri! s’accomodi: — disse sospirando Marchetto.

— Quanto a te, — continuò il capitano venendomi vicino per divertire il discorso — quanto a te, bragia coperta d’un girapolli, vorrei sì averti io fra le grinfe che ti farei mettere giudizio! N’è vero, Veronica, che son famoso io per far mettere giudizio alla gente?

— Va là! volevate dire per farlo perdere! rispose sua moglie, uscendo dal focolare ed avviandosi al tinello.

— Vado ora a dire alla Signora Contessa che non stia in angustia, e che Carlino è tornato. —

Io non aveva uno specchio dinanzi; contuttociò potrei giurare che a quell’annunzio mi si drizzarono i capelli sul capo, come tanti parafulmini. Mi fu allora di mestieri una nuova esortazione della cuoca per tirare innanzi collo spiedo, e poi stetti là più stupidito che rassegnato ad aspettare gli avvenimenti. Infatti questi non mi fecero aspettare a lungo. Mentre la contessa violava da una parte la sua prammatica giornaliera, e compariva per la terza volta in cucina colla signora Veronica a latere, dall’altra veniva dentro Fulgenzio colla sua grossa figura da santone, seppellita più del solito nel collare della giacchetta. Mai la similitudine di Cristo fra i due ladroni non si è appropriata così bene come a me in quel caso; ma sul momento non avea tempo di burlare, poichè sapeva benissimo che nessuno di quei ladri si sarebbe pentito. La contessa si fece innanzi strascicando oltre l’usanza la coda della veste, e mi si piantò proprio sul viso; e la vampa del focolare le rendeva gli occhi come due bragie, e lucente al pari d’un carbonchio la goccioletta, che spesso aggiungeva vezzo al suo naso uncinato.

— Così, — mi disse stendendo verso di me una mano,