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132 le confessioni d’un ottuagenario.


ella mi accarezzò amichevolmente sul capo, e andò insieme cogli altri: ma prima che la fosse uscita, il signor Lucilio mi si era accostato proprio vicino all’orecchio, per dirmi che io stessi in letto il giorno dopo, e che lo facessi chiamar lui, che avremmo accomodato tutto con poco danno. Io alzai la testa per guardarlo e vedere se mi parlava da senno con tanta amorevolezza; ma egli si era già allontanato, fingendo non accorgersi d’uno sguardo quasi di riconoscenza che la Clara avea tenuto fermo sopra di lui, rivolgendosi sulla soglia della porta.

— Cosa gli ha detto a quel poverino? — chiese la fanciulla.

— Gli ho detto così e così, — rispose Lucilio.

La giovane sorrise, e tornarono poi insieme in tinello, dove approssimandosi l’ora della cena tennero loro dietro il capitano colla moglie. Restavano Fulgenzio e la cuoca; ma Marchetto e Martino me ne liberarono assicurando che l’arrosto era cotto, e consigliandomi di andarmene a dormire. Infatti Martino prese su un lume, e mi condusse al mio nuovo domicilio per quei lunghissimi giri di scale e di corritoj che mi parvero in quella sera non dover più finire. Egli mi raccomodò il letticciuolo in un angolo di quello stanzino, che era nulla più d’un sottoscala, m’ajutò a svestirmi, e mi compose le coltri intorno al collo perchè non pigliassi freddo. Io lo lasciava fare, come appunto se fossi un morto; ma quando poi fu partito, e al lume della lucernetta deposta da lui in un cantone vidi le muraglie sgretolate, e il soffittaccio sghembato in quel buco da gatti, la disperazione di non essere nella stanza bianca ed allegra della Pisana mi riprese con tal violenza, che mi dava pugni e unghiate nella fronte, e non fui contento se prima non mi vidi le mani rosse di sangue. In mezzo a quelle smanie sentii grattare pian piano all’uscio, e, cosa naturalissima in un ragazzo, la disperazione cedette pel momento il luogo alla paura.