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262 le confessioni d’un ottuagenario.

della patria; sudditi e governanti, i primi si vantavano capaci di diritti, i secondi s’accorgevano del legame dei doveri. Era un guardarsi in cagnesco, un atteggiarsi a battaglia di due forze fino allora concordi; una nuova baldanza da un lato, una sospettosa paura dall’altro. Ma a Venezia meno che altrove gli animi erano disposti a sorpassare la misura delle leggi: la Signoria fidava giustamente nel contento sonnecchiare dei popoli; e non a torto un principe del Nord, capitatovi in quel torno, ebbe a dire d’averci trovato non uno stato ma una famiglia. Tuttavia quello che è provvida e naturale necessità in una famiglia, può essere tirannia in una repubblica: le differenze di età e d’esperienza che inducono l’obbedienza della prole e la tutela paterna non si riscontrano sempre nelle condizioni varie dei governati e delle autorità. Il buon senso si matura nel popolo, mentre la giustizia d’altri tempi gli rimane dinanzi come un ostacolo. Per continuar la metafora, giunge il momento che i figlioli cresciuti di forza, di ragione e d’età hanno diritto d’uscir di tutela: quella famiglia, nella quale il diritto di pensare, concesso ad un ottuagenario, lo si negasse ad un uomo di matura virilità, non sarebbe certamente disposta secondo i desiderii della natura, anzi soffocherebbe essa il più santo dei diritti umani, la libertà.

Venezia era una famiglia cosiffatta. L’aristocrazia dominante decrepita; il popolo snervato nell’ozio ma che pur ringiovaniva nella coscienza di sè al soffio creativo della filosofia; un cadavere che non voleva risuscitare, una stirpe di viventi costretta da lunga servilità ad abitar con esso il sepolcro. Ma chi non conosce queste isole fortunate, a cui il cielo sorride, e che il mare accarezza, dove perfino la morte sveste le sue nere gramaglie, e i fantasmi danzerebbero sull’acqua cantando le amorose ottave del Tasso? Venezia era il sepolcro ove Giulietta si