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438 le confessioni d’un ottuagenario.

— Giulio, — gli bisbigliai gravemente all’orecchio, — tu hai giudicato la Pisana!... Or guarda adunque se così come la conosci, il tuo orgoglio ti permette d’amarla.

— E tu, l’ami pur tu? — rimbeccò egli con fare aspro e riciso.

— Sì, io l’amo; — soggiunsi — perchè mi vi usai fin dalla nascita, perchè quell’amore non è un sentimento ma una parte dell’anima mia, perch’esso è nato in me prima della ragione, prima dell’orgoglio!

— E in me dunque? — riprese egli quasi piangendo; — credi tu che due anni non l’abbiano radicato in me così profondamente, come in te dodici e quindici?... Credi tu ch’egli fosse un trastullo per me?... Non vedi che muoio solo perchè essa mi è tolta? L’orgoglio, tu dici, l’orgoglio?... Sì, io sono superbo; mi duole di cedere altrui quello ch’io possedeva, e di non poter nulla nulla per riacquistarlo!... Oh se sapessi con quanti spasimi, con quante lagrime, con quante viltà comprerei ora un raggio fuggitivo di bellezza, un barlume momentaneo di spirito, un giorno, un giorno solo della mia vita rigogliosa d’una volta!... Se sapessi quante lunghe ore sto dinanzi allo specchio contemplando con rabbiosa impotenza lo smarrimento delle mie sembianze, gli occhi pesti e annebbiati, le carni ingiallite e rugose!... Sono orribile, Carlo, orribile davvero! Io fo raccapriccio a me stesso; fossi una donna da trivio non concederei un bacio al disgraziato che mi somigliasse. Uno scheletro ritto ancora; ma non vivo, non animato! Almeno mi restasse l’energia spaventosa del fantasma! Mi vendicherei collo spavento, colle maledizioni! Ma l’anima si ritira da me, come l’acqua del fiume dalla sponda inaridita: tutto appassisce, tutto manca, tutto muore! Mi restano solo memorie e desiderii; un popolo sconsolato di pensieri muti e rabbiosi, che non sa nemmeno gridare per destar compassione. —