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456 le confessioni d’un ottuagenario.

CAPITOLO DECIMO.


Carlino cancelliere, ovvero l’Età dell’Oro. — Come al principiare del 1796 si giudicasse al castello di Fratta il general Bonaparte. — La Repubblica democratica a Portogruaro e al castello di Fratta. — Mio mirabile dialogo col gran liberatore. — Ho finalmente la certezza che mio padre non è nè morto nè turco. — La Contessa m’invita da parte sua a raggiungerlo a Venezia.


Il conte Rinaldo era un giovine studioso e concentrato che si dava pochissima cura delle cose proprie, e meno ancora di spassarsi come voleva la sua età. Egli rimaneva a lungo rinchiuso nella sua camera; e con me in particolare non parlava quasi mai. Gli è vero che col capitano e colla signora Veronica io partecipava tuttavia all’onore della sua mensa, ma egli mangiava poco e parlava meno. Salutava nell’entrare e nell’uscire lo zio monsignore, e tutto si riduceva lì. Peraltro manieroso, affabile, giusto all’occorrenza; io non ebbi a lagnarmi di lui per cosa alcuna, e ascriveva quella sua salvatichezza o a malattia, o a paura d’un qualche vizio organico; infatti l’era d’una tinta piuttosto infelice, come di coloro che patiscono nel fegato. Io del resto menava i miei giorni l’uno dopo l’altro sempre tranquilli, sempre eguali come i grani d’un rosario. Di rado andava a Portogruaro a visitare i Frumier per paura del padre Pendola, massime dappoichè la Diocesi avea cominciato a mormorare della sua mascherata prepotenza, e la Curia, e il Capitolo, e il vescovo stesso a risentirsi dell’esser menati dolcemente pel naso. L’ottimo padre pativa le gran convulsioni, ed io non voleva assistere a sì doloroso spettacolo. Piuttosto praticava sovente a Cordovado in casa Provedoni, ove avea stretto grande amicizia coi giovani; e la