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462 le confessioni d’un ottuagenario.

anzi che quella sua mezza felicità dell’ultimo anno s’era venuta a Venezia assottigliando di molto, sia pel bizzarro amore della Pisana, sia pel crescere dei desiderii. Quelle lettere pertanto mi angustiavano per lui, e per me quasi mi rallegravano. Da una parte capiva che se fossi stato a Venezia anch’io, non ci avrei forse goduto maggior felicità che a Fratta, e dall’altra credete voi che le contentezze d’un rivale, per quanto degno ed amico, ci diano in fondo un gusto proprio sincero? — Non vedendo i patimenti di Giulio così da vicino, io era più disposto a perdonarli a chi glieli infliggeva; non voglio darmi per un santo; la cosa era proprio tal quale ve la confesso. Del resto nella nostra solitudine nulla s’era cambiato. Il contino sempre nella sua stanza; la contessa che chiedeva denari con ogni corriere, e la vecchia nonna sempre confitta nel suo letto e affidata alla sorveglianza della signora Veronica e della Faustina. Intorno al camino erano rimasti il capitano e monsignor Orlando, che litigavano ogni sera per accomodare il fuoco. Ciascuno volea brandire l’attizzatoio, ciascuno voleva disporlo a proprio modo, e finivano col bruciar la coda al vecchio Marocco che si ricoverava malcontento sotto il secchiajo. Ad ogni gazzetta vecchia che vi capitasse, il capitano trionfava di vedere quei maledetti Francesi arenati fra gli Appennini e le Alpi. Non più quattro, ma sei ed otto anni di tempo avrebbe lor dato per passarle. Intanto, diceva egli, si può far venire sul Mincio tutta armata la Schiavonia, e mi saprebbero essi dire come andrebbe il giuoco!

Marchetto, Fulgenzio e la cuoca, che soli formavano l’uditorio, non aveano certo la pretesa di smantellare i bei castelli in aria del capitano; e il cappellano, quando c’era, lo aiutava a fabbricarli colla sua credula ignoranza. Io poi dimenava il capo, e non mi ricordo bene cosa ne pensassi. Certo le opinioni del capitano non dovevano entrarmi gran fatto, appunto perchè erano sue. Sul più bello giunse