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466 le confessioni d’un ottuagenario.

vapori, nè telegrafi da far il giro del mondo in un batter d’occhio. A Fratta poi esse giungevano sull’asino del mugnaio, o nella bisaccia del cursore; laonde non fu meraviglia se appena lontano tre miglia dal castello trovassi della gran novità. A Portogruaro era a dir poco un parapiglia del diavolo; sfaccendati che gridavano; contadini a frotte che minacciavano; preti che persuadevano; birri che scantonavano, e in mezzo a tutto, al luogo del solito stendardo, un famoso albero della libertà, il primo ch’io m’abbia veduto, e che non mi fece anche un grande effetto in quei momenti e in quel posto. Tuttavia ero giovine, ero stato a Padova, era sfuggito alle arti del padre Pendola, non adorava per nulla l’inquisizione di Stato, e quel vociare a piena gola come pareva e piaceva, mi parve di botto un bel progresso. Mi persuadetti quasi che i soliti fannulloni fossero divenuti uomini d’Atene e di Sparta, e cercava nella folla taluno, che al crocchio del senatore soleva levar a cielo le legislazioni di Licurgo e di Dracone. Non ne vidi uno che l’era uno. Tutti quei gridatori erano gente nuova, usciti non si sa dove; gente a cui il giorno prima si avrebbe litigato il diritto di ragionare, e allora imponevano legge con quattro sberrettate e quattro salti intorno a un palo di legno. Balzava da terra se non armata, certo arrogante e presuntuosa una nuova potenza; lo spavento e la dappocaggine dei caduti faceva la sua forza; era il trionfo del Dio ignoto, il baccanale dei liberti che senza saperlo si sentivano uomini. Che avessero la virtù di diventar tali io non lo so; ma la coscienza di poterlo, di doverlo essere era già qualche cosa. Io pure dall’alto del mio cavalluccio mi diedi a strepitare con quanto fiato aveva in corpo; e certo fui giudicato un caporione del tumulto, perchè tosto mi si ragunò intorno una calca scamiciata e frenetica che teneva bordone alle mie grida, e mi accompagnava come in processione. Tanto può in certi momenti un cavallo. Lo confesso