Pagina:Le confessioni di un ottuagenario II.djvu/213

Da Wikisource.

capitolo decimoquinto. 205

viso. Soltanto tramezzo un ciglio gli calava giù una piccola cicatrice, contornata da un’aureola di pallore; sembrava il segno d’una trista fatalità fra le nobili speranze d’un valoroso. Egli s’alzò dal lettuccio sul quale stava disteso, tese la mano a Lucilio, e si congratulò secolui del bell’ufficiale che gli accompagnava. — Ufficiale di poco conto, — gli risposi io. — La vera arte militare io non la conosco che di nome.

— Avete cuore di farvi ammazzare per difendere la patria e l’onor vostro? — riprese il Carafa.

— Non una, ma cento vite, — soggiunsi — darei per sì nobili ragioni.

— Ecco, amico mio; vi permetto di potervi credere fin d’ora perfetto soldato.

— Soldato sì, — s’intromise Lucilio, ma ufficiale!?...

— A questo lasciate che ci pensi io!... Sapete nulla montar a cavallo, caricare uno schioppo, e maneggiare la spada?

— So qualche cosa di tuttociò. — (Era merito di Marchetto, e ne lo ringraziai allora, come poco tempo prima avea ringraziato il Piovano della sua classica istruzione.)

— Allora, eccovi anche ufficiale. — In una legione come la mia che farà la guerra alla spicciolata, l’occhio e la buona volontà faranno più del sapere. Stasera tornate da me all’ora della ritirata. Vi consegnerò la vostra schiera, e state di buon animo che di qui a tre mesi avremo conquistato il Regno di Napoli.

Mi pareva di udir parlare Roberto Guiscardo o qualche paladino dell’Ariosto, ma parlava sul serio, e me ne accorsi poi alla prova. Stentava a dimandargli se avrei potuto dormire fuori di caserma, ma gliene chiesi alfine, e mi disse sorridendo che era diritto degli ufficiali.

— Capisco, — soggiunse — avete le notti impegnate con un altro colonnello.