Pagina:Le confessioni di un ottuagenario II.djvu/247

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capitolo decimosesto. 239

paura, non ne ebbi tanta che mi vietasse di tornare alla finestra, e fare un certo gesto molto espressivo a quei scuriscioni napoletani, che guardavano in alto senza poter seguirci, per aver noi ritirato con molta bravura la scala. Quel gesto fu il tocco magico, che mise l’entusiasmo in petto ai miei compagni; ma anche i nemici non burlavano, e cominciarono una certa musica coi loro schioppi, che non dava gran voglia di affacciarsi al balcone per guardar il tempo. Noi ci eravamo provvisti di fucili, di coltelli e di pistole in quell’armeria così opportunamente disposta; rendevamo i saluti con tutta compitezza; e mentre essi a noi sforacchiavano i cappelli, noi a loro spalancavamo il cranio e la pancia. Non so se fossero contenti del cambio. Peraltro la continuazione di quella commedia ci dava da pensare. Da dove fossero sbucati quei maledetti napoletani?... Che il capitano non ne sospettasse nulla? Che essi fossero già in cammino da senno dalla parte della maremma, mentre noi gridavamo il falso allarme verso la montagna? Così era successo infatti; e una semplice bizzarria potea costarmi salata a me, a tutta la legione, e dare anche ad uno scherzo, ad una bravata l’apparenza del tradimento. Intanto si continuava a schioppettare dall’alto in basso, con maggior fortuna che dal basso in alto, quando credemmo accorgersi che i nemici rallentassero non poco della loro vivacità. Qualcuno di noi s’apparecchiava a cantar vittoria e fors’anche a dare addosso a quei pochi ostinati che non volevano ritirarsi, e scorazzavano dietro le piante del verziere, quando s’udì sotto i nostri piedi un fragore come d’uno scoppio sotterraneo, e poco stante un correre, uno scalpitare nelle stanze terrene, susseguito da grida, da urli, da bestemmie e da giaculatorie, secondo il pio costume dei napoletani quando vanno in guerra. Ciascuno di noi fu soprappreso da terrore; mentre i bersaglieri ci tenevano a bada, il grosso degli assalitori avea