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322 le confessioni d’un ottuagenario.

voglio dire se ella ne invanisse di queste grandi fortune, ma certo sapeva farsene merito presso di me col miglior garbo della terra. E a me s’intende toccava amare, com’era giusto, in proporzione dei desiderii che le formicolavano intorno.

Così, menando questa vita di continui piaceri, e di domestica felicità, non si parlava più di ripartire. Quando giungevano lettere da Venezia, appena era se vi metteva sopra gli occhi; ma se la scrittura voltava pagina, ella non la voltava di sicuro, e piantavala a mezzo. Io poi me le leggeva da capo a fondo, ma aveva cura di nasconderle tutta la premura che di tanto in tanto sua madre od il marito le facevano di tornare. Questi pareva non fosse più nè tanto geloso nè così prossimo a morire; parlava di me con vera effusione d’amicizia, come d’uno stretto e carissimo parente; e degli anni futuri come d’una cuccagna che non doveva finir mai.

— Mostro d’un moribondo! — borbottava io. — Pur troppo è risuscitato! — E quasi quasi mi sentiva in grado io di far il geloso per tutto quel tempo che la Pisana aveva dimorato presso di lui. Ma ella sbellicava delle risa per queste ubbie: ed io ci rideva anch’io: però trafugava le lettere, e, buttate ch’ella le avesse da un canto, mi prendeva ogni briga perchè non le capitassero più in mano. La sua smemorataggine mi serviva in ciò a cappello. Quanto alla sua lunga dimora a Venezia, ecco come stava la cosa; o meglio com’essa me l’ebbe a raccontare a pezzi e a bocconi, secondochè l’estro lo permetteva. Sua madre convalescente l’avea pregata almeno per convenienza di far una visita al marito moribondo, la quale, diceva lei, sarebbe riescita graditissima. Infatti la Pisana si era adattata; e poi lo stato del poveruomo, le sue strettezze finanziarie (a tanto ei si diceva scaduto dalla pristina opulenza), l’abbandono nel quale viveva, le aveano toccato il cuore, e persuasala