Pagina:Le confessioni di un ottuagenario II.djvu/345

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capitolo decimonono. 337

insieme a tali doti me se ne sviluppò un’altra, la sincerità, e questa al solito mi fece fare il primo marrone. Quando il portiere ci ebbe aperto e il colonnello mi ebbe introdotto nell’anticamera, io ballonzolava che non mi pareva di toccare il pavimento.

— Chi s’immaginerebbe mai — dissi a voce altissima — chi s’immaginerebbe mai che così come sono sdilinquisco per la fame? —

Il portiere si volse meravigliato a guardarmi per quanto i canoni del suo mestiere glielo vietassero. Alessandro mi diè una gomitata nel fianco.

— Eh matto! — diss’egli — sempre colle tue baie. —

— Eh ti giuro che non son baie, che... ahi, ahi, ahi!... —

Il colonnello mi diede un tale pizzicotto, che non potei tirar innanzi nella contesa, e dovetti interromperla con questa triplice interiezione. Il portiere si voltò a guardarmi, e questa volta con tutto il diritto.

— Nulla, nulla, — soggiunse il Colonnello — gli ho pestato un callo! —

Fu un bel trovato così di sbalzo; ed io non giudicai opportuno di difendere la verginità de’ miei piedi, perchè appunto in quella eravamo entrati nella sala della signora. Il colonnello s’accorgeva allora del pericolo, ma si era in ballo e bisognava ballare; un veterano di Marengo doveva ignorar l’arte delle ritirate.

Fra una luce morta e rossigna che pioveva da lampade appese al soffitto, e affiocate da cortine di seta rossa, io vidi, o mi parve vedere la dea. Era seduta sopra un fianco in una di quelle sedie curuli, che il gusto parigino aveva dissotterrato dai costumi repubblicani di Roma, e che perdurarono tanto sotto l’impero d’Augusto che sotto quello di Napoleone. La veste breve e succinta contornava forme non dirò quanto salde, ma certo molto ricche; una metà