Pagina:Le confessioni di un ottuagenario II.djvu/371

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capitolo decimonono. 363

voleva soprastare d’un qualche anno al pagamento. Così milionari di speranze, e con trecento ducati in tasca, io e la Pisana ci mittemmo in barca per Portogruaro, e giungemmo il secondo giorno, dopo rotte molto alzane e perdendo assai tempo nello scambio dei cavalli e negli arenamenti, sulle beate rive del Lemene.

Il viaggio fu lungo ma allegro. La Pisana aveva, se non mi sbaglio, ventott’anni, ne mostrava venti, e nel cuore e nel cervello non ne sentiva infatti più di quindici. Io, veterano della guerra partenopea ed ex–intendente di Bologna, mano a mano che mi avvicinava al Friuli, mi rifaceva ragazzo. Credo che sbarcato a Portogruaro ebbi volontà di far le capriuole, come ne avea fatte sovente nel giardino de’ Frumier, quando aveva ancora i denti di latte. La nostra allegria fu peraltro mescolata ben presto da qualche mestizia. I nostri vecchi conoscenti erano quasi tutti morti; de’ giovani o coetanei chi qua chi là, pochissimi in paese n’erano rimasti. Fulgenzio decrepito e rimbambito aveva paura de’ suoi figli, ed era caduto in balìa d’una fantesca astuta ed avara che lo tiranneggiava, e sapeva mettere a profitto la sua spilorceria per raggranellarsi un capitale. Il dottor Domenico sbuffava, ma con tutta la sua dottoreria non giungeva a liberar suo padre dalle unghie di quella befana. Don Girolamo, professore in Seminario e brillante campione del partito dei bassaruoli, pigliava le cose con filosofia. Secondo lui bisognava aspettare pazientemente che il Signore toccasse il cuore a suo padre; ma il dottore, che avea somma premura di toccargli la borsa, non si stava cheto a questi conforti del fratello prete. Fulgenzio passò di questo mondo pochi giorni dopo il nostro ritorno in Friuli; la sua morte fu accompagnata da un delirio spaventevole, si sentiva strappata l’anima di corpo dai demonii, e si stringeva tanto per paura alla mano della massaia, che costei fu lì lì