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468 le confessioni d’un ottuagenario.

dine, per accidente, come diceva il Doge Renier; tuttavia tre secoli di decadenza lenta, onorata e quasi felice, diedero un’altra e solenne prova dell’antica potenza di Venezia, e delle virtù immedesimate nel suo governo e nel suo popolo da tanto tempo di glorioso esercizio. Se la Repubblica di San Marco fosse entrata a parte vigorosamente e costantemente nella vita italiana durante il Medio Evo, forse allo scadere de’ suoi commerci avrebbe trovato nell’allargamento in terraferma un nuovo fomite di prosperità. Invece nelle provincie italiane ella comparve ancora più da commerciante che da governatrice; non erano membra integranti del suo corpo, ma colonie destinate a nutrire il patriziato regnante, spoglio dei soliti mezzi di alimentare la propria ricchezza. Furono accorti politici e soldati, non per assodare e dilatare oltre il Po ed il Mincio l’influenza del governo, e prepararsi un futuro italiano, sibbene per difendere le loro proprietà, come lo erano stati dapprima in Crimea e nell’Asia Minore per proteggere gli emporii mercantili. Da ciò, siccome per abitudine di rispetto, o per necessità di equilibrio, e per merito delle prudenti transazioni, gli altri governi li lasciarono godere in pace quei possedimenti commerciali, cessò poco a poco ogni necessità di tutela armata, e contenti di cancellare una partita sulla pagina del dare, i Veneziani affidarono unicamente al proprio accorgimento e alla discrezione altrui la sicurezza del dominio.

Forse se al tramutarsi di mercatanti in proprietarii e di marittimi in continentali, un’arida fazione o un capo fortunato dell’aristocrazia avesse cercato anche di cambiare l’indole del governo di utilitaria in politica, la fortuna di Venezia avrebbe corso qualche maggior rischio, ma racquistato insieme un argomento ed un titolo di futura grandezza, ove le fosse venuto fatto di sormontare vittoriosamente quella nuova esperienza. Si sarebbe rimediato,