Pagina:Le confessioni di un ottuagenario II.djvu/555

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capitolo ventesimosecondo. 547

Bruto tornò al suo cannone come appunto lo avesse abbandonato il giorno prima. La sua andatura zoppicante, e l’umore sempre allegro e burliero anche fra i razzi e le bombe, tenevano in susta il coraggio dei giovani commilitoni. Tutti a quel tempo si facevano soldati, perfino il conte Rinaldo che molte volte, e lo vidi io, montò la guardia dinanzi al Palazzo con tanta serietà, che pareva proprio una di quelle sentinelle mute, che adornano il fondo scenico di qualche ballo spettacoloso. Quello, poveretto, che non arrivò a tempo di montar la guardia, fu il cavalier Alfonso Frumier. Cascato di cielo in terra dopo la morte della sua dama, non avea più rappiccato il filo delle idee, e cercava cercava senza potervi mai riescire, quando un giorno entra il cameriere a raccontargli che in piazza si grida: — Viva San Marco! e che c’è la repubblica, e altre mille cose, l’una più strana dell’altra. Il vecchio gentiluomo si diede una gran palmata nella fronte. Ci sono! parve ch’ei dicesse; indi cogli occhi fuori della testa, e le membra convulse e tremolanti:

— Orsù, presto! balbettò... Portami la toga... dammi la parrucca... Viva San Marco!... La toga... la parrucca, ti dico! Presto!... che si faccia a tempo! —

Al cameriere sembrò che il padrone stentasse a proferire queste ultime parole, e che vacillasse sulle gambe; stese le braccia per sostenerlo, ed egli stramazzò al suolo, morto per un eccesso di consolazione. Mi ricordo ancora ch’io piansi, all’udir raccontare quella scena commoventissima, la quale spiegava nobilmente il torpore semisecolare del buon cavaliere.

Intanto anche noi, senza essere così felici da morirne, pure avemmo le nostre consolazioni. La concordia d’ogni classe di cittadini, la serena pazienza di quell’ottimo popolo veneziano in ogni fatta di disgrazie, la cieca confidenza nel futuro, l’educazione militare che dietro i