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CAPITOLO VENTESIMOTERZO


Nel quale si contiene il giornale di mio figlio Giulio, dalla sua fuga da Venezia nel 1848, fino alla sua morte in America nel 1855. — Dopo tanti errori, tante gioie, tante disgrazie, la pace della coscienza mi rende dolce la vecchiaja; e fra i miei figli e i miei nipotini, benedico l’eterna giustizia che m’ha fatto testimone ed attore d’un bel capitolo di Storia, e mi conduce lentamente alla morte come ad un riposo, ad una speranza. — Il mio spirito, che si sente immortale, si solleva oltre il sepolcro all’eternità dell’amore. — Chiudo queste Confessioni nel nome della Pisana come le ho cominciate; e ringrazio fin d’ora i lettori della loro pazienza.


Tonale, giugno 1848.


«La superbia fu giudicata il capitale dei peccati capitali. Chi diede questa sentenza conobbe per certo l’umana natura. Ma vi sono castighi, che sorpassano in terribilità qualunque gravezza di colpa. Quello che soffersi io non ha paragone in qualunque genere di pena: i tiranni della Sicilia non ne seppero inventare di più atroci. È vero; fui orgoglioso. Disprezzai chi non era forse nè meno veggente, nè meno coraggioso di me; m’aggirai fra essi colla testa ritta e colla frusta in mano come fra uno sciame di conigli; diedi ragione se non al diritto, certo alla forza dei padroni, e risi di vederli calpestati perchè non li credeva possibili ad una riscossa. Povero vanerello, che pretendeva conoscere il vigore dei muscoli dalla morbidezza della pelle, e giudicava di cavalli nella stalla! Sorse il giorno che il derisore fu lo scherno dei derisi; e dovette chinar il capo sotto la punizione più tremenda che possa affliggere il cuore d' uomo, sotto un oltraggio immeritato, ma giusto.»

È assurdo, lo veggo, ma lo toccai con mano, e bisogna rassegnarsi. Felice me che non m’ingruppai nei