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580 le confessioni d’un ottuagenario.

un torrente, la Gemma tremava e rideva dalla paura, ma pur si fidava di me, e metteva i suoi piedini sul passatoio l’un dopo l’altro, così daccosto, così leggieri, che era cosa da baciarla. Davvero non potrei volerle maggior bene se fosse mia sorella.

Più spesso quando suo padre è assente, ed io rimango per badare alla soldatesca che ha bisogno di esser curata, perchè non diventi il flagello del territorio, noi passiamo insieme le più simpatiche giornate che si possano immaginare. Studiamo insieme un tantino di storia, ed io le insegno quel poco che so di Atene e di Roma; ella m’insegna di ricambio a strimpellar qualche arietta sul cembalo, e così in due mesi si suona già a quattro mani, che in Europa sarebbe un martirio l’udirci; ma qui ne sono incantati, e due ragazze mulatte, che sono le sue cameriere, non tralasciano mai di ballare alla nostra musica una indiavolata sarabanda. Davvero che codeste signore schiave hanno bel tempo, e se qui stessero tutti i danni della servitù sarebbe da sottoscriversi subito; ma ho già veduto le fattorie, le piantagioni di zucchero, e non ho coraggio di parlare.

Anche la schiavitù ha la sua aristocrazia spensierata, felice e dura, ma odiata dagli inferiori, più forse degli stessi padroni. Fra me e la Gemma si fa anche un po’ di scuola al Fabietto; egli sgrammatica già nel francese con inimitabile audacia, e tutti insieme poi prendiamo lezione di portoghese da un vecchio prete che è cappellano, vescovo, e direi quasi papa del paese. V’ha, sì, nella provincia un vescovo, ma è miracolo se una volta in sua vita si cimenta fin quassù. Sono fatiche da bestie, e i nostri prelati suderebbero a figurarsele: non si trovano qui nè parrochi ospitali, nè canoniche spaziose e parate a festa, nè mense ben fornite ad ogni due miglia. Bisogna serenare dieci notti prima di trovare una capanna, dove un povero e