Pagina:Le mille e una notti, 1852, I-II.djvu/228

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allora che a tenermi franco in sella, e malgrado lo spavento, non mi ci tenni male. Diresse quindi il volo verso terra, e si fermò sul terrazzo d’un castello, dove, senza darmi tempo di scendere, mi scosse dalla schiena con tal violenza, che mi fe’ cadere all’indietro, e coll’estremità della coda mi cavò l’occhio destro.

«Ecco in qual maniera divenni guercio; mi ricordai allora di ciò che mi avevano predetto i dieci giovani signori. Intanto il cavallo, ripigliato il volo, disparve, ed io mi rialzai afflittissimo della disgrazia da me stesso cercata. Camminai pel terrazzo, colla mano sull’occhio che mi cagionava grave dolore; discesi, e mi trovai in una sala, che mi diè a conoscere, pe’ dieci sofà disposti in cerchio, ed un altro meno alto nel mezzo, essere quel castello il medesimo dal quale era stato rapito dal roc.

«I dieci signori guerci non trovavansi nella sala: li aspettai, ed essi giunsero poco dopo col vecchio; ma non parvero sorpresi nè di rivedermi, nè della perdita del mio occhio. — Assai ne duole,» mi dissero, «di non potervi felicitare sul vostro ritorno come avremmo desiderato, ma non siamo noi cagione della vostra sventura. — Avrei torto di accusarvene,» risposi; «me la procurai da per me, e me ne do tutta la colpa. — Se la consolazione degl’infelici,» ripigliarono quelli, «è d’aver compagni, il nostro esempio può somministrarvene argomento. Tutto ciò che v’è accaduto, a noi pure accadde. Avevamo gustato ogni sorta di diletti per un anno intero, ed avremmo continuato a godere della medesima felicità, se durante l’assenza delle principesse la curiosità non ci avesse spinti a dischiudere la porta d’oro. Voi non siete stato di noi più saggio, ed incontraste egual sorte. Vorremmo ricevervi con noi per fare la nostra penitenza, cui non sap-