Pagina:Le mille e una notti, 1852, I-II.djvu/252

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«Codesta ragione fe’ montar sulle furie mio marito. — Simile azione» mi disse, «non rimarrà impunita. Darò domani ordine all’intendente di polizia di arrestare tutti quei facchini brutali, e farli appiccare.» Presa dal timore d’essere cagione della morte di tanti innocenti, risposi: — Signore, assai mi dorrebbe che si commettesse sì grande ingiustizia; guardatevi dal farla; mi crederei indegna di perdono, se fossi origine di questa disgrazia. — Ditemi dunque sinceramente,» ripigliò egli, «cosa debbo pensare della vostra ferita. Tornai a dirgli, che m’era stata fatta per l’inavvertenza d’un venditore di scope a cavallo del suo asino, il quale veniva dietro di me colla testa rivolta da un’altra parte; che l’asino mi aveva urtata sì forte, ch’io era caduta, battendo la guancia sopra un pezzo di vetro. — Ciò posto,» disse allora mio marito, «il sole non sarà appena alzato domani, che farò avvertito il gran visir Giafar di questa insolenza, e lo pregherò di far morire tutti questi mercanti di scope. — In nome del cielo, signore,» lo interruppi io, «vi supplico di perdonar loro; e’ non sono colpevoli. — Insomma, signora,» diss’egli, «che cosa debbo credere? Parlate; voglio sapere assolutamente la verità dalla vostra bocca. — Signore,» risposi, «mi colsero le vertigini, e sono caduta: ecco il fatto.

«A quest’ultime parole il mio sposo perde la pazienza, e sclamò: — Ah! è troppo ascoltar menzogne.» Si dicendo, battè le mani, ed entrarono tre schiavi. «Tiratela fuor del letto,» disse loro, «e stendetela in mezzo alla camera.» Gli schiavi eseguirono l’ordine, e mentre uno mi teneva per la testa e l’altro pei piedi, ei comandò al terzo d’andar a prendere una scimitarra, e quando l’ebbe recata: — Ferisci,» gli disse, «tagliale il corpo in due, e va a gettarlo nel Tigri, acciò serva di pasto ai pesci: e il castigo ch’io riserbo alle persone cui ho dato il mio cuore