Pagina:Le mille e una notti, 1852, I-II.djvu/254

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cicatrici che ieri vedeste contro mia intenzione, mi restarono. Quando fui in istato di camminare e d’uscire, volli tornare alla casa ereditata dal primo marito; ma non ne trovai che l’area: il mio secondo sposo, nel trasporto dell’ira sua, non contento di farla demolire, aveva persino fatta abbattere tutta la contrada ov’era situata. Questa violenza parrà al certo inaudita; ma chi accusarne? L’autore aveva preso le opportune misure per celarsi, e non mi fu possibile conoscerlo. D’altra parte, quand’anche mi fosse stato noto, non m’avvedeva forse che quel trattamento partiva da un potere assoluto? Come avrei osato lagnarmene?

«Desolata, priva di tutto, ebbi ricorso alla mia cara sorella Zobeide, qui presente, e le raccontai la mia sventura. Essa mi accolse colla solita bontà, e mi esortò a sopportarla con rassegnazione. — Ecco com’è il mondo,» mi disse «ci toglie di solito le sostanze, gli amici o gli amanti, e talvolta il tutto insieme.» Nel tempo stesso, per provarmi quanto diceva, mi narrò la perdita del giovane principe, cagionata dalla gelosia delle altre due sorelle, ed in qual modo erano state queste trasformate in cagne. Infine, avendomi dato mille segni d’amicizia, mi presentò alla sorella minore, la quale erasi ritirata nella propria casa dopo la morte di nostra madre.

«Così, ringraziando Dio di averci tutte e tre riunite, risolvemmo di vivere libere, nè mai più separarci. È molto tempo che conduciamo questa tranquilla esistenza; ed essendo io incaricata delle spese della casa, ho piacere d’andar, in persona a fare le provvigioni di cui abbisogniamo. Ieri andata a comperarne, le feci portare da un facchino, uomo di spirito e di allegra indole, che trattenemmo quindi per divertirci. Tre calenderi sopraggiunsero sul far della notte, e ci pregarono di ricoverarli sino alla