Pagina:Le mille e una notti, 1852, I-II.djvu/298

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Scheherazade cessò qui di parlare; e la notte seguente ripigliò in questa guisa il racconto:


NOTTE LXXXII


— «Aspettava la morte,» continuò Sindbad, «quando sentii alzare la pietra. Si calarono un cadavere ed una persona viva: il morto era un uomo. È naturale il prendere nell’ultime estremità risoluzioni estreme; mentre si calava la donna, mi avvicinai al sito ove dovea essere deposta, e quando m’accorsi che si chiudeva la bocca del pozzo, diedi sulla testa all’infelice due o tre gran colpi con un pesante osso, di cui m’era impossessato, talchè ne rimase stordita, o piuttosto l’accoppai; e siccome non faceva quell’azione inumana se non per approfittare del pane e dell’acqua che trovavansi nella sua bara, ebbi viveri per alquanti giorni. Scorso quel tempo, si calò di nuovo una donna morta con un uomo vivo: ammazzai l’uomo nella stessa guisa, e poichè, per mia buona ventura, regnava allora nel paese una specie di mortalità, non mancai di viveri, mettendo sempre in opra la medesima industria.

«Un giorno, che aveva appunto spedita una donna, intesi soffiare e camminare. Mi avanzai dalla parte d’onde veniva il rumore; avvicinandomi, udii soffiare più forte, e mi parve veder qualche cosa prendere la fuga. Seguii quella specie d’ombra che fermavasi tratto tratto, e soffiava sempre fuggendo, a misura ch’io me ne accostava. La seguii tanto tempo ed andai sì lontano, che vidi finalmente una luce somigliante ad una stella. Continuai a camminare verso quella luce, qualche volta perdendola di vista, secondo gli ostacoli che me la nascondevano, ma sempre ritro-