Pagina:Le mille e una notti, 1852, I-II.djvu/562

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«Un giorno che passava davanti ad un magnifico palazzo, la cui porta elevata lasciava vedere un ampio cortile nel quale formicolava una turba di servi, si accostò ad uno di loro, e gli domandò di chi fosse quella dimora. — Buon uomo,» gli rispose il servitore, «d’onde venite per farmi simile domanda? Tutto ciò che vedete non vi fa conoscere che questa è la casa d’un Barmecida?» Mio fratello, cui era nota la generosità e liberalità de’ Barmecidi, si volse ai custodi, essendovene vari, pregandoli di fargli elemosina. — Entrate,» gli dissero, «niuno ve lo vieta, e dirigetevi voi stesso al padrone di casa, che vi rimanderà contento. —

«Mio fratello non si attendeva tanta cortesia; ringraziò i portinai, ed entrò, con loro permesso, in quel palazzo sì vasto, che molto tempo impiegò per arrivare all’appartamento del Barmecida. Giunse infine ad un grande edificio quadrato, di bellissima architettura, in cui entrò per un vestibolo, dal quale si scorgeva un giardino de’ più deliziosi, con viali di sassolini a vari colori, che ricreavano la vista. Gli appartamenti del pian terreno erano quasi tutti a sfori e rabeschi, e si chiudevano con grandi cortine per difendersi dal sole, mentre poi si aprivano per prendere il fresco quando passata era la caldura.

«Quell’ameno luogo avrebbe destata l’ammirazione di mio fratello, se fosse stato più contento di quello ch’era. Pure, avanzatosi, entrò in una sala riccamente addobbata ed ornata di pitture a fogliami d’oro e d’azzurro, ove trovò un vecchio venerabile per lunga barba bianca, seduto sur un sofà, al posto d’onore; il che gli fece supporre fosse il padrone della casa. In fatti era il Barmecida in persona, il quale, salutatolo con modi cortesi, gli domandò cosa desiderasse. — Signore,» rispose mio fratello con voce da destarne la pietà, «sono un povero uomo