Pagina:Le mille ed una notti, 1852, III-IV.djvu/606

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a me, cui tu debba raccontare ciò che ti domando, ma bensì a qualche amico che te ne pregasse. Se v’ha in questo racconto qualche cosa che ti dia pena, e di cui tu creda ch’io possa offendermi, te la perdono da questo stesso momento. Sgombra adunque ogni inquietudine; parlami a cuore aperto, e non dissimularmi nulla, come se fossi il miglior tuo amico. —

«Rassicurato il giovane dall’ultime parole del califfo, schiuso finalmente il labbro: — Commendatore de’ credenti,» disse, «qualunque sia l’impressione che far debba ad ogni mortale il solo accostarsi alla maestà vostra ed allo splendore del suo trono, pure mi sento forza bastante per isperare che codesta rispettosa impressione non m’interdirà la parola al punto di mancare all’obbedienza che gli debbo, dandogli soddisfazione su tutt’altra cosa da quella che ora da me esige. Non oso dirmi il più perfetto fra gli uomini; ma non sono cattivo si d’aver commesso, e nemmeno avuto la volontà di commettere nulla contro le leggi che possa darmi motivo di temerne la severità. Per quanto buona però sia la mia intenzione, conosco di non andar esente dal peccare per ignoranza, ed è ciò appunto che mi accadde. In tal caso, non dico ch’io abbia fiducia nel perdono, cui piacque alla maestà vostra di concedermi senza avermi udito; mi sommetto anzi alla sua giustizia, e ad essere punito se l’ho meritato. Confesso che la maniera con cui da qualche tempo tratto la mia cavalla, come vostra maestà ne fu testimonio, è strana, crudele e di pessimo esempio; ma spero che ben fondato ne troverà il motivo, e stimerà eziandio ch’io sono degno più di compassione che di castigo. Ma non deggio tenerla più a lungo in sospeso con un tedioso preambolo. Ecco cosa m’è accaduto.»

La sultana, destata quella mattina più tardi delso-