Pagina:Le mille ed una notti, 1852, V-VI.djvu/390

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«Fra quel tumulto, il soldato incaricato della lettera d’Attaf la lasciò cadere; una nuova guardia venne a mettersi alla porta del palazzo, prese Attaf e lo mise in prigione. Poco dopo, il gran visir salì a cavallo, e fece pubblicare per tutta la città l’ordine del califfo per le pubbliche feste, che doveano durare sette giorni. Con questo medesimo ordine, il califfo lasciava in libertà tutti i prigionieri.

«Attaf, rilasciato cogli altri, comprese che non potrebbe informare facilmente Giafar di quello che lo risguardava, e che bisognava attendere un’occasione più favorevole. Uscendo di carcere, trovò tutta la città decorata ed illuminata: l’aria echeggiava del fragore degli strumenti musicali, e le contrade erano piene, dai lati, di lunghe tavole sulle quali eranvi cibi d’ogni sorta. Attaf partecipò ai pasti pubblici, e passò in quei modo i sette giorni di festa.

«Alla sera del settimo giorno, tutti si ritirarono nella propria abitazione, stanchi dei piaceri; le vie divennero deserte quanto poche ore prime erano popolate, ed il silenzio più profondo successe al clamore ed al tumulto.

«Attaf entrò allora in una moschea per passarvi la notte; ma dopo la preghiera della sera, uno dei custodi se gli avvicinò e gl’impose di uscire prima che si chiudesse la porta. — Lasciatemi,» disse Attaf, «passar la notte in un canto. — Impossibile,» rispose il custode; «ieri ci fu rubato un tappeto; non voglio che alcuno dormi qui stanotte. — Io sono straniero,» riprese Attaf, «e non conosco alcuno in questa città; datemi l’ospitalità sol per oggi.» Il guardiano non volle ascoltar nulla, e lo costrinse ad uscire.

«Quando fu nella via, si vide inseguito da una torma di cani, che gli abbaiavano dietro, mentre i guardiani dei mercati dei diversi quartieri gli grida-