Pagina:Le mille ed una notti, 1852, V-VI.djvu/677

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«Camminai penosamente per un’arida pianura dove, prima di me, nessun mortale era penetrato, e scopersi infine la città onde avevami parlato il genio. Le mura erano di bronzo, e sì alte, che perdevansi nelle nubi. Mi avvicinai, e ne feci il giro, pensando di trovare un luogo per entrarvi, ma le mie ricerche furono inutili. In quel momento ricomparve il fratello del serpente bianco, e mi presentò una spada incantata, colla quale io poteva, disse, penetrare nella città senza esser veduto. Presi la spada, ed il genio sparve senza lasciarmi tempo di rispondere.

«Un rumore confuso di voci avendo poco dopo colpito le mie orecchie, mi volsi, e vidi una truppa d’uomini che avevano gli occhi in mezzo al petto. Quando mi scorsero, s’avvicinarono, chiedendo chi fossi e che m’avesse condotto in quel luogo. Soddisfeci alle loro domande, e raccontai le mie avventure. Mi dissero che realmente la giovine, di cui parlava, era rinchiusa col genio ribelle nella città di Bronzo, ma che ignoravano in qual modo fosse trattata. — Quanto a noi,» aggiunsero, «voi non avete nulla a temere da parte nostra, essendo schiavi del fratello del serpente bianco. Se volete penetrare in quelle mura, andate verso quella fontana, esaminate da qual parte vien l’acqua, e seguitene il corso; essa vi condurrà nella città: è la sola strada che possiate prendere per entrarvi. —

«Io seguii il consiglio dei geni, e scorto un aquedotto, entrai, e ne percorsi tutta la lunghezza. Appena ebbi fatto qualche passo fuor dell’aquedotto, vidi la mia sposa in un’immensa prateria, seduta su d’un cuscino di broccato d’oro, e coperta d’un velo di seta, i cui orli rappresentavano un superbo giardino, pieno d’alberi carichi di frutti d’oro e di perle.

«Quando mi scorse, corse alla mia volta, doman-