Pagina:Le murate di Firenze, ossia, la casa della depravazione e della morte.djvu/27

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l’ali avrebbe potuto scandere. Il mare che sempre più sollevavasi in gonfi marosi aveva di già sepolta nelle acque l’apertura donde io era venuto, e quella via m’era preclusa; il cielo si faceva sempre più tetro e fosco; i flutti nereggianti e spumosi si accavallavano con violenza e furore, e talor gonfiandosi mugghianti si sollevavano come altissime montagne infino al cielo, e altamente rombando ricascavano precipitosi, spaventevoli.

Ahi sventura! scampato appena da un grave pericolo di morte, un nuovo me ne soprastava non meno grave e minaccioso; e se io sola mano d’Iddio aveva potuto da quello liberarmi, essa sola poteva da questo pure affidarmi.

Retrocedere era impossiblle; tentar l’ascesa di quelle ripide e stagliate rupi era impresa da forsennato; affrontar l’impeto di quella furiosa tempesta gettandosi al mare era, se non disperata, almeno arrischiatissima risoluzione; fermarsi in quell’angolo colla sola camicia in dosso, esposto sempre all’urto dei gonfi marosi, che il mare fin dall’imo fondo sconvolto gettava altissimi e con furia contro quei massi, valeva quanto rinunziare ad ogni speranza di salvamento, e soccombere da pusillanime, da vile. Il pericolo incalzava; la luce che vedeva a gran tratti mancare m’avvertiva che la notte non era molto lontana, e bisognava quindi risolvere prima che il buio più disastrosa e disperata rendesse la mia disgrazia. Addestrato al nuoto, sciolto di membra, agile, robusto siccome mi sentiva, non era impossibile resistere per qualche tempo all’urto dei flutti, rasentare una scogliera, avanzare nel mare fino al punto ove lo scoglio scendeva a livello dell’acque, montare il sasso, e su per quella schiena inerpicando, salire di punta in punta, guada-