Pagina:Le opere di Galileo Galilei V.djvu/279

Da Wikisource.

avvertimento. 275

naio 1635, premessa all’edizione stessa1, afferma d’aver portato seco il manoscritto italiano della scrittura galileiana da un viaggio in Italia, compiuto quindici anni prima. È molto probabile che Galileo non abbia avuto parte alcuna in questa pubblicazione: almeno nessun cenno ch’egli in qualche modo vi partecipasse si trova nel copioso carteggio, relativo all’edizione, del Bernegger col Diodati. S’aggiunga che il 15 luglio 1636, quando ormai da parecchio tempo il libro era pronto per la vendita in Germania2, Galileo ne aveva visto soltanto il primo foglio, ricevuto «circa tre mesi» prima, e il frontispizio con le due lettere proemiali del Diodati e del Bernegger, che pochi giorni avanti gli era stato mandato da Parigi, ma ancora ne stava aspettando un esemplare intero3.

Fra tutti i manoscritti occupa un posto singolarissimo quello che abbiamo indicato per primo, il cod. V. In questo esemplare infatti si riscontrano non infrequenti correzioni autografe di Galileo; alcuni brani sono aggiunti (una volta di mano del Nostro) su cartelle separate, e dei segni di richiamo dimostrano a quali posti devono essere inseriti; altri passi invece, che pure si leggono in tutti i rimanenti testi a penna, mancano in V. La lezione poi di questo codice, che è assai buona, si allontana spesso, e non tanto leggermente, da quella degli altri: notevolissimo è un particolare, cioè che nel testo di V non è mai menzionata la Granduchessa Cristina, ma i luoghi ne’ quali, secondo la lezione comune, Galileo rivolge la parola a «Sua Altezza Serenissima», o mancano nel cod. V, o il discorso vi è indirizzato a una «Paternità», che, come abbiamo detto più addietro, si può credere sia il P. Castelli. Questi fatti inducono a tenere che il cod. V rappresenti una più antica stesura della lettera, quando l’importante documento era, per così dire, ancora in formazione: tale esemplare, forse spedito, ovvero portato, da Galileo o al Principe Cesi o ad altro suo amico romano, giacque poi inosservato fino ad oggi, nè mai fu trascritto; perciò e certe sue lezioni non passarono in nessun altro codice, e certi luoghi che qui Galileo emendò di suo pugno,

    negger mandava, stampate, al Diodati soltanto il 4 aprile 1636 (vol. cit., car. 178r.). Cfr. Galilei betreffende Handschriften der Hamburger Stadtbibliothek. Yon D.r Emil Wohlwill. Aus dem Jahrbuch der Hamburgischen Wissenschaftlichen Anstalten. XII. Hamburg, 1895. Commissions-Verlag von Lucas Gräfe und Sillem. — Autore della versione latina molto probabilmente è stato, per quanto risulta dal carteggio del Bernegger, il Diodati stesso, e non già Galileo, come vorrebbe C. Bünger, Matthias Bernegger, ein Bild aus dem geistigen Leben Strassburgs zur Zeit des dreissigjährigen Krieges. Strassburg, 1893, pag. 89.

  1. In questa lettera il Diodati prese il nome di «Robertus Robertinus Borussus», amico e discepolo del Bernegger e personaggio noto nella storia letteraria tedesca (Cfr. Geschichte der deutschen Dichtung von G. G. Gervinus. Dritter Band, fünfte Auflage, Leipzig, 1872, pag. 325-326). Ma che sotto lo pseudonimo di Robertinus si nasconda il Diodati, il quale volle così celarsi perchè non si sospettasse che Galileo avesse avuto parte nella pubblicazione, è confermato anche dal citato carteggio del Bernegger (vol. cit., car. 143r., 169t. e 178r.).
  2. Nella citata lettera del 4 aprile 1636 il Bernegger scriveva al Diodati: «Apologiae 200 exemplaria ... mercator quidam nostras ad vos curanda suscepit... Elzeviriis misi Francofurtum exemplaria 300 apologiae».
  3. Lettere di Galileo a Fra F. Micanzio, dei 28 giugno e 12 luglio 1636 (Biblioteca Marciana, Cl.X, cod. XLVII, car. 2 e 8), e al Bernegger, dei 15 luglio 1636 (Epistolaria Commercii M. Berneggeri cum viris eruditione claris, fasciculus secundus. Argentorati, sumptibus Josiae Staedelii, M.DC,LXX, pag. 115).