Pagina:Le opere di Galileo Galilei VI.djvu/228

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Or vegniamo al trattato, e sia il primo saggio intorno ad alcune parole del proemio, cioè da "Unus, quod sciam", fino a "Doluimus". Il qual proemio sarà però da noi qui registrato intero, per total compitezza del testo latino, al quale non vogliamo che manchi pur un iota.

"Tribus in cælo facibus insolenti lumine, anno superiore, fulgentibus, nemo hebeti adeo ingenio ac plumbeis oculis fuit, qui utramque in illas aciem non intenderit aliquando, miratusque non sit insueti fulgoris eo tempore feracitatem. Sed quoniam est vulgus, ut sciendi avidissimum, ita ad rerum causas investigandas minus aptum, ab iis propterea sibi tantarum rerum scientiam, iure veluti suo, exposcebat, ad quos cæli mundique totius contemplatio maxime pertineret. Philosophorum igitur astronomorumque Academias consulendas illico censuit. Quid igitur nostra hæc Gregoriana, quæ, et disciplinarum et Academicorum multitudine nobilis, se inter cæteras designari omnium oculis, se maxime consuli, ab se responsa expectari, facile intelligebat? Committere enimvero non potuit, ne in re, quamquam dubia, suo saltem muneri et postulantium votis utcumque satisfaceret. Præstitere hoc ii, quibus ex munere id oneris incumbebat; nec male, si summorum etiam capitum suffragium spectes. Unus, quod sciam, Disputationem nostram, et quidem paulo acrius, improbavit Galilæus."

Nelle quali ultime parole, cioè "Unus, quod sciam", egli afferma che noi agramente abbiamo tassata la Disputazion del suo Maestro. Al che io non veggo per ora che occorra risponder cosa alcuna, avvenga che il suo detto è assolutamente falso; poi che, per diligenza usata in cercar nella scrittura del signor Mario il luogo (già ch’egli nol cita), non l’ho saputo ritrovare. Ma intorno a questo avremo più a basso altre occasioni di parlare.



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Seguita appresso (e sia il secondo saggio): "Doluimus primum, quod magni nominis viro hæc displicerent; deinde consolationis loco fuit, ab eodem Aristotelem ipsum, Tychonem, aliosque, non multo mitius hac in disputatione habitos: ut sane non aliæ iis texendæ forent apologiæ, quibus communis cum summis ingeniis causa satis, vel ipsis silentibus, apud æquos æstimatores pro se ipsa peroraret."

Qui dice, aver da principio sentito dolore che quel Discorso mi sia dispiaciuto, ma soggiunge essergli stato poi in luogo di consolazione il veder l’istesso Aristotile, Ticone ed altri esser con simile asprezza tassati; onde non erano di mestieri altre difese a quelli che nell’accuse fussero a parte con ingegni eminentissimi, la causa stessa de’ quali, anco nel lor silenzio, appresso giusti giudici assai da per se stessa parlava e si difendeva. Dalle quali parole mi par di raccorre che, per giudicio del Sarsi, di quelli che intraprendono a impugnar autori d’ingegno eminentissimo si debba far così poca stima, che né anco metta conto che alcuno si ponga alla difesa de gli oppugnati, la sola autorità de’ quali basta a mantener loro il credito appresso gl’intendenti. E qui voglio che V. S. Illustrissima noti come il Sarsi, qual se ne sia la causa, o elezzione o inavvertenza, aggrava non poco la reputazion del P. Grassi suo precettore, principale scopo del quale nel suo Problema fu d’impugnar l’opinion d’Aristotile intorno alle comete, come nella sua scrittura apertamente si vede e l’istesso Sarsi replica e conferma in questa, alla fac. 7; di modo che se i contradittori a gli uomini grandissimi devono esser trapassati, il P. Grassi doveva esser un di questi. Tuttavia noi non solamente non l’abbiamo trapassato, ma ne abbiamo fatto la medesima stima che de gl’ingegni eminentissimi, accoppiandolo con quelli; sì che in cotal particolare altrettanto viene egli da noi essaltato, quanto dal suo discepolo