Pagina:Le rime di Lorenzo Stecchetti.djvu/35

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al lettore. 5


Lo sapemmo tardi perchè in principio egli nascose quasi con pudore la sua malattia, ma pur lo sapemmo e noi tutti che lo amavamo fummo ben dolorosamente sorpresi. Egli no; e quando gliene parlai per la prima volta, sorrise amaramente dicendo: — Tanto a che servivo io? Meglio così. — Era già rassegnato.

Cosa strana per un tisico, egli non ebbe mai illusioni sul proprio stato. Continuò tuttavia il suo solito metodo di vita ed agli estranei non parve mutato nè al fisico nè al morale. Solo diventò meno gaio. Alle volte interrompeva a mezzo il riso incominciato e diventava improvvisamente serio. Molte cose che prima amava con tutto l’ardore della sua bella giovinezza, gli divennero indifferenti. Anche l’anima ammalava.

Viaggiò. Gli avevano prescritto il clima di Napoli, ultimo rimedio che si consiglia ai disperati per tisi, a fine di prolungar loro l’agonia. E questa agonia fu per lui orribile, straziante. Non si potranno mai dire le profonde disperazioni di un’anima che a poco a poco si sente mancar tutto d’intorno. Ed egli che non sperava, cercava d’illudersi, voleva far credere a sè stesso di sperare ancora. Scriveva ad una donna:

     Mi si spezza la testa. Io son malato
E la febbre mi brucia entro le vene.
Sono debole, giallo, dimagrato.
Ma quando penso a te mi sento bene;