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SONETTO XCIII.
Che del bel viso trassen gli occhi miei
Nel dì che volentier chiusi gli avrei
4Per non mirar già mai minor bellezza;
Lassai quel ch’i ’più bramo: ed ho sì avvezza
La mente a contemplar sola costei;
Ch’altro non vede; e ciò che non è lei,
8Già per antica usanza odia, e disprezza.
In una valle chiusa d’ogn’intorno,
Ch’è refrigerio de’ sospir miei lassi,
11Giunsi sol com Amor pensoso, e tardo:
Ivi non donne, ma fontane, e sassi,
E l’immagine trovo di quel giorno
14Che ’l pensier mio figura, ovunq; io sguardo.
SONETTO XCIV.
Di che ’l suo proprio nome si deriva,
Tenesse vòlto per natura schiva
4A Roma il viso, ed a Babel le spalle;
I miei sospiri più benigno calle
Avrian per gire ove lor spene è viva:
Or vanno sparsi; e pur ciascuno arriva
8Là dov’io il mando; che sol un non falle:
E son di Jà sì dolcemente accolti,
Com’io m’accorgo; che nessun mai torna;
11Con tal diletto in quelle parti stanno.
Degli occhi è ’l duol, che tosto che s’aggiorna,
Per gran desio de’ be’ luoghi a lor tolti,
14Danno a me pianto, ed a’ piè lassi affanno.