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66 parte prima — il sistema leibniziano

lo spazio, il tempo e il movimento hanno qualche cosa dell'ente di ragione, e non sono veri e reali per sé stessi, ma solo in quanto attributi divini involventi l'immensità, l'eternità, l'azione o la forza delle sostanze create. Ne consegue che non esiste un vuoto nello spazio né nel tempo, che il movimento separato dalla forza, cioè quando non si considerino in esso se non le caratteristiche geometriche, cioè la grandezza, la figura o i loro mutamenti, non è altro che un mutamento di luogo; e che perciò il movimento, rispetto ai fenomeni, consiste in una semplice relazione; il che fu anche riconosciuto da Cartesio, quando definì il movimento come una traslazione dalle vicinanze di un corpo alle vicinanze di un altro corpo. Ma nel trarne le conseguenze, dimenticò la sua definizione, e stabili le regole del movimento come se il movimento fosse qualche cosa di reale e assoluto. Bisogna dunque ritenere che, quando più corpi qualsiasi sono in movimento, non è possibile dedurre, dal loro aspetto esteriore, in quali di essi sia un determinato movimento assoluto oppure la quiete; ma ciascuno di essi a piacere può essere considerato in quiete, pur restando uguali le manifestazioni esteriori.

(Specimen Dynamicum, parte II, M. VI, 247).


Il movimento è relativo: la forza sola è assoluta. E il concetto di forza ha, molto più che quello di movimento, una chiara impronta di attività. Pare che in esso il conatus degli scritti giovanili abbia trovato il suo completamento e la sua realizzazione.

Abbiamo altrove avvertito che negli esseri corporei vi è qualche cosa al di là dell'estensione, anzi prima dell'estensione: la forza della natura, riposta ovunque dall'autore supremo, la quale non consiste soltanto in una semplice facoltà, come si contentavano di dire gli scolastici, ma anche in un conatus o sforzo, il quale avrà il suo effetto pieno se non sia impedito da un conatus con-