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114 CAPITOLO TERZO

buon prete non obbediva a nessun calcolo. Egli aveva nel sangue una invincibile officiosità che, a fronte di ogni persona ragguardevole, lo rendeva sull’istante cerimonioso e cordiale. Sentiva allora diminuire in sè, come per miracolo, le distanze di opinione e di sentimenti che lo separavano, eventualmente, da quella persona; e, volere o non volere, bisognava pure che con parole e con gesti e col giuoco della fisonomia le desse a capire di essere molto più del suo avviso ch’essa non avrebbe pensato. Donna Fedele si divertì molto, nel proprio interno, di queste accoglienze previste, pensando al mutamento di scena che doveva seguire. Si divertì anche di accettare la poltrona dell’arciprete, di figurarsi, nella propria gonna violetta, un vescovo e dell’idea di dar mano alla tabacchiera ch’era lì sul tavolo davanti a lei, aperta.

«Sono venuta» diss’ella con una dolce flemma sonnolenta che pareva velarle anche i begli occhi «per farle vedere che cerco di essere una cristiana, non dirò buona, ma discreta.»

L’arciprete rise rumorosamente.

«Oh bella bella bella! Ma chi ne dubita, signora? Ma ma ma ma! Chi ne dubita?»

Donna Fedele sorrise. Mentre le labbra sorridevano, gli occhi ingrandirono e diedero un lampo di luce viva.

«Eh!» diss’ella. Anche la voce ebbe un lampo.

Don Tita mostrò di non capire, di non ricordare certa concessione del giardino di donna Fedele per una festa contadinesca complicatasi di ballonzoli, certa sua sconveniente predica fattagli rimangiare dalla signora; e ricominciò:

«Ma ma ma ma!»

La bella voce riprese blanda:

«Lei non ha pensato così una volta e neppure adesso quando mi sono presa Pestagran in casa.»