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FORBICI 147

oltre a due metri, alcun triste proposito era in lei. Le bastava la certezza di avere un rifugio pronto, le bastava dirsi in cuore: quando voglio, posso. Però, nell’aprire e spingere il cancelletto, le tremò un poco la mano. S’inoltrò nella radura dove, fra giganti guardie di alberi, si apre l’ingresso al regno del Silenzio. Scendendo sulla ghiaia del giardino e della via pubblica, aveva tremato che il suo passo, pur tanto leggero, si udisse. Ora ogni suono n’era spento. Ell’andava sull’erba falciata di fresco, silenziosamente, come uno spirito. Ogni senso di sgomento l’abbandonò. Perdersi fra quelle tacite ombre, per le molli erbe senza via, sotto il cielo buio, le fu come un uscir del mondo in seno a tenebre materne. Seguì sussurri di rivi per grembi ascosi, per grembi scoperti del monte, affondò spesso il piede nell’erba pregna di acque segrete. L’aria era immobile, fresca e odorata di umidore nelle cavità ombrose, calda sui pendii scoperti e viva di fragranze selvagge, di amorose voci mute dell’erbe. Si gittò supina sopra uno di questi pendii, come vinta dalla tepida dolcezza. Materna materna era la notte alle cose! Le dolci loro anime vi si effondevano libere e Lelia stessa era una piccola creatura della notte, una sorella delle cose amorose. Giacque nella dolcezza di desideri indistinti, senza pensare, come talvolta nel suo letto, piovendole sui capelli e sul guanciale petali di fiori. Lo spirito voluttuoso che le ascendeva nella persona dalla terra tepida, fragrante, tacendole il cielo chiuso sulla faccia supina, le ammolliva le resistenze dell’orgoglio all’amore. Ella svelse un pugno d’erba e lo morse.

Si alzò allora, riluttante a rimanere, riluttante a lasciare il giaciglio profumato. Salì, poco più su, nel tubo nero di una lunga carpinata. Alla sua destra un piccolo chiarore fioco segnava la bocca lontana del tubo. Alla sinistra le tenebre non avevano fine e suonavano di acqua cadente. Prese a sinistra. Sapeva di certo sentiero uscente