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NELLA TORRE DELL'ORGOGLIO 203

cero al padroncino accoglienze insolitamente festose. Sarebbe stato ben difficile intenderne il perchè recondito. I coniugi avevano presto subodorato la ragione delle visite frequenti di don Santino: qualche diavoleria da cavar gran danari al padrone. «Vedaret» aveva detto la moglie del cuoco, la Peppina, al suo Togn: «quell lì el va adree, el va adree, fina ch’el ghe mangia foeura tusscoss». E allora veniva in campo la morale: il padrone muore pelato dal prete, le pensioncine della servitù se ne vanno in Emmaus, Togn e Peppina d’accordo non rifinivano di dare alla Bigia della stupida perchè magnificava la santità del suo confessore e non si accorgeva che il confessore l’avrebbe messa sul lastrico. La buona donna rispondeva tutta scandolezzata: «Gavii minga vergogna de pensà a quii rob lì? Gavii minga vergogna?»

I due fecero dunque accoglienze insolite a Massimo che consideravano come un socio del pericolo e nell’intervento del quale ponevano, perciò, la loro maggiore speranza. Pensarono subito a metterlo sull’avviso. Non credettero però conveniente di farlo a bruciapelo e prima di aver meditato bene il modo di entrar in discorso. La Peppina, più avida, più biliosa, più inquieta, avrebbe voluto parlare quella mattina stessa. Mentre ne discuteva con suo marito, Massimo uscì di casa per andare verso Porta Magenta, dove, a due passi dal Monastero Maggiore, dimorava l’amico di don Aurelio.

Camminava adagio, pensando Velo, il silenzio dei castagneti e dei prati, il rumore profondo del Posina, pensando Lelia e non volendo pensarla, sentendosi stringere l’anima fra le facce volgari delle case di destra e di sinistra come da una rigida morsa, soffrendo anche di mescolarsi alla gente. Nel suo desiderio di don Aurelio erano pure i ricordi della quiete di Lago, della piccola chiesa, della umile canonica. Le pietre dei