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NELLA TORRE DELL'ORGOGLIO 211

pover'uomo, per averlo inteso dire. Mi ha detto che sei teosofo, che non credi nella divinità di Cristo, che non credi nella Risurrezione, che non credi nella Presenza reale e via di questo passo. Insomma ho avuto molto da fare a persuaderlo che s’ingannava. Quando si è persuaso, ne è stato molto felice, però mi ha consigliato di vederti poco.»

«Ci scriveremo» disse Massimo. «Del resto io non desidero certo di rimanere a Milano lungamente.»

Informò l’amico dei fastidi e degli sdegni che gli rendevano grave il soggiorno di Milano. Poi gli si aperse circa certe preoccupazioni di carattere diverso che gl’impedivano di ripartire al più presto. Di proprio non possedeva che un capitale di quarantamila lire, investito in un mutuo ipotecario di prossima affrancazione. Dallo zio aveva l’alloggio e il servizio, la mensa quando gli piacesse, e un assegno di duecento lire il mese. Le milleseicento lire che gli fruttava quel capitale erano la piccola rocca della sua indipendenza. Malgrado l’affetto che sentiva per lo zio, la venerazione che gl’ispiravano le grandi virtù di lui, temeva sempre che dal profondo disaccordo latente delle loro idee, delle loro tendenze intellettuali, potesse venire una crisi nella quale gli riuscisse grave il giovarsi ancora della sua generosità. Perciò, inclinando poco all’esercizio della medicina, non avendo modo di campare coi lavori prediletti, gli era necessario di collocar bene quel danaro. Lo disse a don Aurelio sorridendo malinconicamente delle preoccupazioni materiali cui non possono sottrarsi neppure i più fervidi idealisti. Nel caso suo gli s’imponevano ricerche di persone che avessero bisogno di danaro, pratiche con notai, contratti; oppure indagini sulla solidità di titoli bancarii, di titoli industriali, negoziazioni di quel genere. Non poteva pensare alla rendita pubblica che al tasso di allora gli avrebbe reso quasi due-