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248 CAPITOLO SETTIMO

neri, vedutivi nel ritorno dalla Montanina. Erano piantati nella roggia o fuori? Non sapeva più. Se cadesse dal parapetto del ponte, a perpendicolo, nella roggia, batterebbe probabilmente sui pali, e vi si sfracellerebbe. Non voleva morire così scomposta. Bisognava dunque saltar lontano, il più possibile. Le passò un brivido nella persona. E riprese a discendere. Giunta in fondo, si arrestò ancora. Aveva dimenticato di distruggere o di portare con sè i pezzi dello scritto stracciato. Risalire a prenderli? Si strinse nelle spalle, attraversò il salotto ascoltando i battiti precipitosi dell’orologio nelle tenebre, regolandosi da quelli nel movere verso la veranda. Aperse adagio adagio i battenti accostati, uscì rapidamente. Fatti due passi, si gittò di slancio a sinistra, rovesciando sedie, perchè una forma umana era balzata in piedi davanti a lei. Non gridò, saltò sugli scalini che scendono al giardino, disparve. Intanto donna Fedele, che aveva le finestre aperte, secondo la sua abitudine, udito il rumore delle sedie rovesciate, chiamò: «chi è?». Rispose la voce di Carnesecca: «una donna! È uscita una donna!» — «Che donna?... Dov’è?» gridò ancora donna Fedele, angosciata, dalla finestra. «Non so! È fuggita! È sparita!» — «La insegua! È sonnambula!»

Carnesecca sparve di corsa, nel buio, verso il cancello piccolo. Mortale silenzio. Un grido! Donna Fedele, ravvolta in un accappatoio, scendeva già gli scalini della veranda, avendo intuita la cosa terribile. Udì la voce di Carnesecca, blanda, carezzevole: «Si svegli, signora! Si svegli, signora!». Ah, era salva! Le mancarono le forze, cadde a sedere sull’ultimo scalino, nella pioggia. Lelia, raggiunta sul pendio erboso imminente al cancelletto, aveva gridato nel sentirsi afferrare ed era caduta come morta.