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268 CAPITOLO OTTAVO

morte del vecchio Trento, il suo testamento, Momi Camin alla Montanina...

«Fin che no vien Spazzacamin.»

L’arciprete non sapeva quanto la sua freddura fosse atroce per Molesin, il quale la sostenne imperturbato. Disse che Momi lo aveva invitato a vedere la villa. Era venuto principalmente per il piacere di visitare l’arciprete. Però gli era stato gradito anche di accontentare Momi. E qui fece prudenti elogi di Momi, disgraziato, sì, nella famiglia e negli affari, uscito forse un po’ fuori di strada in cose politiche, ma buon diavolaccio, in fondo, e buon cristiano poi; oh, questo sì, buon cristiano, di quelli all’antica.

«A pian a pian» fece don Tita. «I me dise che in casa, a Padova, ghe sia del sporcheto.»

Molesin aggrottò le ciglia, strinse e porse le labbra con un lungo mugolio sordo, interrotto di scatti negativi: — no — no — no — che finirono in un dubitativo: «proprio no credaria — apparenze!» E continuò a dire dei buoni principii, delle buone pratiche del suo amico. Si teneva sicuro che sarebbe un eccellente parrocchiano, un parrocchiano generoso per la chiesa, generoso per i poveri; mentre se per disgrazia, un giorno o l’altro, la Montanina capitasse in mano di quel tale, di quel signor Alberti...

«Pur troppo, fiôlo» disse don Tita. «La ghe capita.»

«Da bon?»

Molesin perdette un momento il suo equilibrio.

«La ghe capita» confermò don Tita. E raccontò la fuga tentata da Lelia.

«Combinà, capìo» diss’egli. «Tutto combinà.»

Secondo lui, la ragazza non voleva assolutamente saperne di vivere con suo padre. Donna Fedele la protegge, ma non può tenersela se il padre la vuole. Pochi mesi ancora, e la ragazza è maggiorenne, diventa libera.