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IN GIUOCO 297



III.



Durante il desinare, servito in gran ritardo, il sior Momi espresse a Molesin la cortese intenzione d’invitargli a pranzo per l’indomani il suo amico arciprete. Molesin ringraziò, ma certa esitazione e certa fiacchezza nell’accento rivelarono le sue angustie. Egli aveva appreso dalla cuoca la causa molto spiacevole del gran ritardo: una scena fra la Gorlago e Teresina a proposito di certo bicchiere di marsala che quest’ultima aveva consegnato alla cuoca per i suoi lavori e che la governante del sior Momi, fatta una scorreria in cucina, si era tracannato per metà. Teresina si era licenziata e le preghiere del sior Momi non avevano potuto rimuoverla dal fiero proposito.

Teresina che parte e la Gorlago che trionfa: belle disposizioni, pensò Molesin, per invitare l’arciprete! Dopo pranzo il sior Momi, passando nel salone, propose una partita a foracio. Gli occorreva blandire, non potendo sopprimerlo, un avversario capace di macchinazioni diaboliche, di spingere i preti di Velo a influire sulla ragazza in un modo sinistro per lui. Molesin non conosceva il foracio, non giuocava che il tresette e il terziglio. Entrò Giovanni collo scalone per accendere le lampade.

«Lassè star quela maledeta scala!» esclamò il sior Checco, da burbero malefico, stavolta.

«Basta un lumeto, un lumeto da ogio; a mi me piase i lumi da ogio.» Non c’erano «lumeti» in casa. Furono portate due candele. Il sior Momi chiese con un timido - aho - se l’amico fosse disposto a un terziglio.

Il terziglio si giuoca in tre e l’amico, sbalordito, fece:

«Ohe?»