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330 CAPITOLO DUODECIMO

bile parlandole dei vecchi Camin, di un vecchio prete che diceva la prima messa ai Carmini, di una vecchia monaca, famosa cuoca di pasticcerie. E il padre? La trattava male? No no. Lelia sarebbe stata contenta di venirne trattata male. Il padre era umile, ossequioso, mellifluo da far nausea. Non moveva una sedia in casa senza domandare il suo permesso. Glielo aveva domandato poco prima per far raccogliere il fieno. Era mellifluo e cerimonioso anche con Teresina. Credeva che qualchevolta, con Teresina, fosse stato anche confidenziale. Lo disse con tale accento di disprezzo che donna Fedele esclamò: «Oh! Lelia!» «Non me ne importa niente» rispose la fanciulla. E non raccontò che il sior Momi, quando, facendosi avanti tutto servile verso la figliuola, trovava duro, si tirava subito indietro con un «aho aho» come se avesse scherzato. Con quel trepido avanzare e quel frettoloso tirarsi indietro, il sior Momi pareva uno che tentasse nelle tenebre una siepe di rose nella speranza di porre la mano sopra un fiore e incontrasse una spina.

Le stesse mura della Montanina non erano più quelle. Erano vive, prima, e materne. Ora Lelia le sentiva morte, ignare di lei. Avevano un gelo e un’immondizia dello spirito di suo padre. Se non avesse temuto di far inorridire donna Fedele, Lelia le avrebbe confessato il suo mostruoso sospetto di non essere figlia di quell’uomo. Era possibile stare alla Montanina in condizioni simili? Domandò una risposta.

«Portami il bicchier d’acqua» disse l’amica «e l’ampollina col contagoccie, che sono sul tavolino da notte.»

Lelia obbedì in silenzio. Donna Fedele, maestra nell’arte di udire o non udire a suo piacimento, inghiottì la medicina e riprese tranquillamente:

«Lo so cosa mi volevi dire ieri.»

Lelia non si era mai abituata a queste volontarie sordità dell’amica. La irritavano sempre.