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«AVEU» 353

Giunta nella conca di Lago, prese il sentiero che conduce al laghetto del Parco. Udì voci di donna al lavatoio, ritornò indietro, si mise fra le casupole di Lago avendo in mente, oramai, una meta, la strada militare che taglia in alto il fianco della Priaforà, sopra le gole del Posina, dov’era andata più volte a cogliere rose delle Alpi. Salì alle selvagge frane quando il sole calante, toccata la cresta della montagna, vi mancava rapido. Le gole del Posina soffiavano vento freddo sulla morta petraia, sul caos di macigni enormi, franati dalle nude sinistre altezze giù verso lo spacco pieno d’ombra e di perpetuo rombo. Lasciata la strada, Lelia si arrampicò a sinistra fra i rododendri fioriti. Seduta lassù, sola figura viva nel gran deserto ventoso, andò strappando fiori, macchinalmente, a destra e a sinistra, se ne raccolse un piccolo fascio in grembo, vi tenne su a lungo le mani immobili, gli occhi, il pensiero. Poi, fredda quanto potè, cavò la lettera, si fece forza per non correrla in cerca del proprio nome, lesse dal principio, lentamente:


«Cara mamma Fedele,

Sappia che mi avvio alla ricchezza e alla fama. Ieri l’altro la famiglia di un giovinotto cui rimisi a posto un piede slogato, mi mandò all’albergo ogni ben di Dio: formaggio di capra, salsiccia, funghi. Ieri un pretino candido, timido, umile, per una visita alla sua vecchia madre che ha varici alle gambe, siccome non volli il suo denaro, mi diede una boccetta di aceto di Modena. Come lo avesse, non so. Stamattina mi mandò a chiamare la moglie del sagrestano. La bambina che mi portò il messaggio mi portò anche un cestello di noci per impegnarmi ad andare. Secondo l’albergatrice mi attende un grande avvenire. Se continuo così, dice,